Quando scriviamo di uno scrittore, non scriviamo davvero di lui.
Scriviamo di un sentimento.
Scriviamo e parliamo delle sensazioni che quello scrittore produce in noi, sforzandoci di circoscrivere il terreno di un felice incontro, una linea di contatto. Ci muoviamo sulle sabbie mobili dell’emotività.
Quando scriviamo di uno scrittore, uno scrittore che ci piace, stiamo in realtà scrivendo di noi stessi.
È per questo che scrivere qualcosa su Jo Ann Beard non mi è facile. Perché spiegare la sorpresa e poi la serenità provati nel leggere LE FORZE DELLA TERRA (Orville Press), una pagina via l’altra, racconto dopo racconto, significa spiegare cosa mi piace e perché.
Il “cosa” è la parte più facile. È il “perché” a essere difficile.
La Beard è una che scrive di cugine e sorelle. Di nonne. Di mamme che fumano e padri che bevono. Di cani, parecchi cani, ficcati con passione in ogni racconto. E di capelli («LE FORZE DELLA TERRA parla di capelli», cit. Letizia Muratori). Il centro di gravità della raccolta, da cui gli altri racconti sembrano emanare come onde radio, mi è parso letterariamente meno cruciale di quanto suggeriscano il sigillo di garanzia del «New Yorker» e il dato biografico dell’autrice – il folle che un giorno tira fuori una pistola e ammazza tutti sul posto di lavoro è oramai una parabola della contemporaneità: quel giorno la Beard si salvò per pura fortuna e il racconto tratto da quell’episodio, “Il quarto stato della materia”, è certo potente, e la tenerezza tra lei e Collie, la cagna moribonda, taglia il fiato, però se questa autrice mi parla tanto non è per queste cose. Anche se condivido la sua ossessione per i capelli e ho un debole per le cugine.
Allora perché. Questo è il punto.
Per la pace.
Jo Ann Beard è una regina degli excipit (il finale di “Coyote”, quinto della raccolta, è una meraviglia) e dei silenzi tra una riga e l’altra. Spazi di vuoto compresso al punto da risucchiarti dentro.
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Anni fa lessi un’intervista in cui Enrico Rava ricordava una registrazione del quintetto di Miles Davis – la formazione migliore, quella con John Coltrane – con una versione di ’Round About Midnight in cui Davis non suona neanche l’assolo, ma un’introduzione ridotta all’osso prima del celebre tema. Solo poche note essenziali. E a un certo punto fa un Si bemolle, che tiene a lungo. Talmente carico di espressione e di storia che, dice Rava, ascoltandolo e riascoltandolo si ha l’impressione che tutta la musica precedente sia esistita soltanto perché a un certo punto potesse arrivare un signore capace di suonare un Si bemolle così. Con tutto un mondo dentro.
La passione produce iperboli, d’accordo.
Però c’è questo racconto, “Vita di famiglia”, in cui la Beard rievoca fra le altre cose la figura del padre alcolista. Più che la figura, la sua presenza in casa. Lo scavo procurato sulla sostanza molle della vita familiare dall’apprensione, dall’allarmante peso di questa presenza, e dallo strazio della sua assenza.
Fatto sta che il padre rispunta dopo l’ennesima serata rovinata da una sbornia. S’è dato una rassettata, ha metabolizzato, insomma si capisce che è venuto fuori da un dialogo senza sconti con sé stesso e ha deciso di impegnarsi. Vuole davvero restare pulito. E mentre in salotto la Beard e sua sorella guardano un episodio di “Missione impossibile”, il padre si sforza di guardarlo con loro. Commenta, anche. Che succede, chi sono quelli, che missione è… Le figlie annuiscono. Lui sta bevendo un bicchiere di latte. E a un certo punto, a bruciapelo, la figlia chiede se vuole che gli porti una birra. Forse la tensione accumulata è troppa e non ha resistito. Tutto, pur di spezzarla. Tutto, pur di far sì che l’inevitabile accada. Eutanasia di un’attesa.
La sorella, Linda, la guarda come se fosse pazza, e c’è silenzio, non arriva risposta:
«…ma mio padre continua a guardare la televisione.
Dopo un minuto fa di no con la testa».
Noi quel minuto non lo viviamo ma lo sentiamo tutto. La densità intollerabile, il collasso gravitazionale. È il Si bemolle di Miles Davis. Una nota. Una riga, una sola riga, in cui c’è tutta la dissoluzione di una storia familiare. Perché un paragrafo dopo il padre sta ancora fissando “Missione impossibile”, ma non lo sta più guardando. E sappiamo già come andrà a finire, prima ancora che lui si alzi da quel divano. Insieme alla Beard aspettiamo solo il suono consueto, inevitabile, di una bottiglia stappata di là in cucina.
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E poi c’è “Bonanza”, un altro telefilm, un altro televisore, in un racconto che è come un catalogo di gioie e orrori tastati, frugati a casa della nonna da una Beard bambina. Oggetti, più che altro, disposti in una scenografia costipata e caotica che occupa ogni centimetro di spazio. Tra questi, cose molto “nonnesche” come barattoli pieni di bottoni d’ogni foggia e colore, che affascinano la bambina come il richiamo di un tempo non suo. E lei cosa fa: niente di che, la sola cosa che si può fare da bambini con dei barattoli di bottoni, quello che qualcuno di noi forse avrà fatto: ne rovescia il contenuto… «e il FRRR delizioso che facevano quando si riversavano sul tavolo dal barattolo. Non sapevo bene cosa farci, dopo; sembravano richiedere un tipo speciale di gioco […] Ma dato che non riuscivo a inventarmi mai niente li rimettevo nel barattolo».
Il vero piacere di rovesciare i bottoni è tutto in quel FRRR, che è come il FRRR di Francesco Nuti quando descrive il biliardo e la caduta dei birilli in “Io Chiara e lo Scuro”.
Giusto un attimo di sospensione, semplice semplice; ma bisogna saperlo, averlo, per poi scriverlo.
Ecco perché dicevo la pace.
È la pace – dura un secondo – che scende su chi legge e si ritrova ad annuire pensando: “è vero, è proprio così”.
E dura un secondo. Ma è il secondo in cui non sei solo.