«Ascoltate».
Inizia così: «Ascoltate».
E poi:
«Se una ragazza è seduta a un tavolino di un bar. E le sue labbra sono il centro della conversazione…».
Ma già in quell’«Ascoltate» c’è tutto uno scrivere. Quello che in narrativa chiamano “tono”.
Dunque:
«Ascoltate. Se una ragazza è seduta a un tavolino di un bar. E le sue labbra sono il centro della conversazione. E il modo in cui si scosta i capelli dal volto. O aggrotta la fronte…
Ascoltate. Se nell’iride verdissima…».
Eccetera.
Inizia così L’ansito della mia sposa. Uno dei racconti contenuti in Ano di volpi argentate, la prima raccolta, il primo libro, pubblicato nel 2000, di Franco Stelzer. Lo scrittore di cui vorrei parlarvi.
Sono titoli strani di uno scrittore strano, iscritto all’ambiguo registro di quelli che in editoria si chiamano Scrittori di Culto, che ufficialmente è come a dire: “non lo conosci ma è bravo”, ma sotto sotto s’intende: “non lo conosci perché è troppo bravo”.
Trentino, non molto prolifico. Classe ’56, dopo la raccolta sopra citata ha pubblicato Il nostro primo, solenne, stranissimo Natale senza di lei (2003), Matematici nel sole (2009) e Cosa diremo agli angeli (2018), Stiratore di luce (2023).
Di cosa parli nei suoi libri non è mai chiarissimo. Anche se è chiaro ciò che scrive. Scrive pensieri che penetrano dettagli. Li allargano in visioni. Trasfigurazioni di realtà che leggendo ci sforziamo di definire e circoscrivere, finché non ci arrendiamo. Non è la Pistola di Cechov che a Stelzer interessa maneggiare. L’oggetto in sé, il procedere lineare. Eppure sa descrivere – oggetti, persone, animali – come pochi. E il suo incedere sulla pagina ha una inesorabilità cupa e luminosa.
Cupa perché non si sfugge. Ma la luce c’è, a secchiate: in certi passaggi è come riemergere in superficie dopo una lunga apnea. Un ritorno al mondo.
Nei suoi racconti, da A a B si arriva eccome, ma come presi a spintoni, attraverso svolte, accelerazioni e rallenty che uniscono punti, tessono un anagramma.
C’è spesso una donna, in questi racconti. Ci sono l’amore e il sesso. Tradimenti. Malattie. Lutti. Si muore: muoiono le persone e muoiono gli animali, sui letti e sull’asfalto di autostrade. Molte automobili, anzi abitacoli, che si sfiorano e si offrono a sguardi indiscreti. Amplessi, conversazioni, litigi muti oltre la trasparenza dei finestrini. Uomini addetti ai controlli in aeroporto che, ugualmente, scrutano e immaginano l’esistenza altrui. Il tono è questo qua: lo scorrere delle vite estranee che finiscono per impressionare una retina sensibilissima, per restare impigliate a un’altra vita, per imporsi al centro della sua esperienza.
Ascoltate…
Difficile, leggendo, non avvicinare il libro, non chinare appena il capo, imitando il modo in cui, da scrittore, Stelzer si china sul mondo e sul prossimo, che siano vecchi volgari o donne addolorate, per poi coglierli come si fa con un fiore selvatico, esaminandoli in ogni loro parte. La sua pupilla si dilata in maniera insostenibile, a volte, come l’addentrarsi della cinepresa tra l’erba e il ribollire degli insetti in primo piano nella sequenza di Velluto Blu. Questa attitudine alla vicinanza estrema, questa lente d’ingrandimento invereconda su macchie di saliva, sangue, sperma, crepe – macchie appunto, tutte le macchie possibili che lasciamo nella nostra vita. La stessa grammatica dolorosa e poetica di cui è fatto il cinema di David Lynch.
Più d’ogni altra cosa, si avverte la forza della mancanza. La mancanza – di una donna, di una presenza d’amore, di una pienezza andata – che divora tutto, condiziona tutto. Lo scavo di un lancinante rimpianto, che però alimenta la testarda tensione escatologica che innerva le pagine di Stelzer. Angeli, ci sono gli angeli, non a caso, in molte di queste storie. Sporchi e sudati, laceri e brutti. Che s’infilano dappertutto, perfino negli orifizi e tra le carni durante un amplesso; che palpeggiano, osservano, partecipano. Nessuno li vede, li sente. Sono l’unico, possibile, difettoso divino a noi concesso. Ma è il divino che non ci lascia soli.
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